Educazione alimentare positiva

Cover VISIONI E APPROCCI AL PESO TRA MEDICINA E FEMMINISMO

Visioni e approcci al peso tra medicina e femminismo

Un dialogo con la me stessa del passato (PRIMA PARTE) In questi ultimi quattro anni sono passata dal lavorare con un approccio classico al peso ad un approccio “disinteressato” al peso. La strada è stata tortuosa e complessa tra sfide, giudizi, dubbi ed errori: è difficile abbandonare un porto sicuro e conosciuto fatto da persone autorevoli e da ufficiali linee guida, per intraprendere, quasi sola, un sentiero buio e ancora poco esplorato.  È stato ancora più sfidante, però, dover affrontare i miei privilegi e dover decostruire quella visione distorta/parziale sul peso che da essi deriva: il lavoro di una professionista sanitaria è sempre contaminato dal contesto personale e culturale (politico). Laddove la scienza, infatti, è di gran supporto come punto di partenza per osservare la realtà, non può essere il punto d’arrivo. Dobbiamo porci attivamente domande più complesse, andare a fondo nei dati per evitare che la semplificazione ignori importanti variabili umane, e per evitare che si consolidino di conseguenza errori di valutazione sui quali si costruiscono pratiche cliniche che stanno in piedi su premesse manchevoli e pregiudizievoli. Ed ho scoperto con il tempo che è proprio dalle peggiori premesse che, purtroppo, si dettano le linee guida per le pratiche cliniche su peso e diete. Dove la scienza di oggi è fragile e pregiudizievole è stato il femminismo intersezionale a illuminarmi sulle domande utili a svelare i bias e a ricercare nuove risposte, ipotesi e nuovi valori dai quali ripartire: il peso non è un comportamento, non è pertanto un qualcosa di manipolabile, né una scelta.  il peso non può in alcun modo determinare il valore morale delle persone.  la salute è un concetto ampio e variegato che non può prescindere dall’osservazione delle dinamiche ambientali e culturali, nonché delle differenze genetiche e interpersonali.   la salute è un diritto, non un dovere, e ogni persona merita di essere posta nelle migliori condizioni di scelta circa la sua personale idea di salute. la giustizia sociale è uno strumento medico di cura alla persona e di prevenzione per la comunità, non si può ignorare l’impatto delle discriminazioni e delle oppressioni in nessun ambito medico. Come si arriva qui? Quali sono le domande? Quali gli aspetti scientifici da tenere e quali da buttare? Quali sono i valori femministi che permettono alla scienza di progredire verso una clinica rispettosa e intersezionale? Vorrei provare a rispondere a queste e ad altre domande con un espediente particolare: un dialogo ipotetico con la me del passato, ossia una dietista che inizia ad avvertire tante incongruenze, ambivalenze e dissonanze. Qualunque sia la motivazione che vi spinge verso la ricerca di un approccio “diverso” al peso, che siate professionistə, pazientə o semplicə curiosə, la strada verso la scoperta di questo approccio è complessa e lunga, i dubbi saranno tanti, la maggior parte dei quali non hanno una risposta univoca, ma se vi lasciassi con più dubbi che risposte, avrei raggiunto il mio obiettivo. TRIGGER WARNING | Attenzione: le scritte in grassetto e corsivo sono relative alla me stessa di tempo fa, una dietista flessibile e non prescrittiva, ma ancora distante dall’abbracciare a pieno un approccio rispettoso al peso per questo può utilizza un linguaggio ed una terminologia stigmatizzante. Non ho bannato le sue parole (slur), ma alcune potrebbero attivare esperienze mediche passate traumatiche, o sentimenti di colpa o vergogna, per chi volesse evitare questa attivazione potrebbe tranquillamente leggere solo le risposte senza che il dialogo perdera di significato. INTERVISTA “Ciao, sono una dietista esperta di disturbi alimentari e obesità, sto iniziando a leggere di un approccio al peso diverso, che non prevede manipolazione, né obiettivi specifici, né diete… in cosa consiste questo nuovo approccio?” Un approccio non focalizzato sul peso è un approccio medico che prende in considerazione la persona senza agire i pregiudizi culturali sul peso: non dà per scontato che una persona grassa abbia problemi di salute, ma indaga la sua salute generale o un sintomo autoriferito con tutti i mezzi possibili, come farebbe se di fronte avesse una persona “normopeso” (e questo oggi non accade);  è un approccio che non dà per scontato che una persona grassa mangi male, troppo o sia sedentaria, indaga questi comportamenti, se necessario, come farebbe con qualunque altra persona, perché sono aspetti importanti per comprendere lo stile di vita e non possono essere dati per scontati sulla base di pregiudizi, (nemmeno quando di fronte si ha una persona con un corpo “apparentemente in forma”); è un approccio che non dà per scontato che una persona grassa abbia bisogno di fare una dieta o abbia interesse a cambiare il suo corpo; è un approccio che considera la dieta un’esperienza traumatica e tiene in considerazione di questa esperienza e dell’esperienza dello stigma sul peso nella pratica clinica. “Non dovrebbe essere sempre così in ambito medico?” Certamente, dovrebbe essere così per ogni discriminazione che inconsapevolmente, e spesso in maniera automatica, agiamo come professionistə della salute. “E allora perché non esiste, per esempio, un approccio non focalizzato sul colore della pelle?” Non è necessario specificare l’aderenza ad un approccio non focalizzato sulla razza, perché la razza non esiste (più) in quanto concetto medico, ma solo come concetto politico/attivista. Non è sufficiente aver preso le distanze dell’eugenetica (la scienza che dimostra la superiorità della “razza bianca”), per non agire le discriminazioni in ambito medico, ma è comunque dato per scontato che la pratica clinica non sia apertamente discriminante, cosa che non accade sul peso, dal momento che i corpi grassi sono ufficialmente patologizzati. “Cosa c’entra ciò con l’obesità?” Con l’ob*sità siamo al punto in cui le evidenze scientifiche (come nell’eugenetica) sono ancora così ricche di bias (errori) invisibili da sostenere un approccio al peso patologizzante con conseguenti diagnosi, trattamenti e terapie diverse/pregiudizievoli per le persone grasse. “Quali sono questi trattamenti diversi/pregiudizievoli per le persone che soffrono di obesità e perché ciò non potrebbe essere visto invece come un atto di cura o di prevenzione per una popolazione effettivamente più a rischio?” Alle persone grasse viene molto spesso consigliato di perdere peso prima di intervenire con ulteriori indagini diagnostiche,

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copertina articolo

Cosa non è l’Alimentazione Intuitiva

Il pinkwashing degli approcci non prescrittivi Come riconoscere un processo di trasformazione, che anche l’Intuitive Eating, purtroppo, come tutte le cose “di moda, ma con uno scopo nobile” sta rischiando di subire. Ho conosciuto la Mindfuleating diversi anni fa quando mi è capitato tra le mani un volume dalla bellissima copertina: di sfondo una tavola di legno bianco, sopra una tazza di yogurt con frutti rossi e, un po’ di granola dentro e un po’ sulla tavola, della serie -chiessenefrega degli sprechi volevo solo fare una bella foto-. Mi è parsa una copertina che trasudava cultura della dieta, in un momento in cui io, da dietista, sentivo già di lottare contro questo mostro, anche se non né conoscevo ancora bene il nome e le fattezze.Ho letto qualche pagina (estratto del Kindle) per curiosità e mi è parsa banale, tanti giri di parole e un tono che cattura emotivamente.Ho trovato quelle informazioni un po’ scontate, e per me che sono del campo e che, al tempo, mi stavo interessando di comportamento alimentare già da diversi anni, è stato facile riconoscere che l’interesse a vendere superava quello del benessere; chi volesse curiosare una nuova materia però, non dovrebbe essere costrettə riconoscere i messaggi ambivalenti e distorti, specialmente quando si tratta di salute. Avete mai sentito parlare di pinkwashing? Avviene quando si cavalca l’onda di un movimento, un’idea un concetto politico, in questo caso di un approccio alla salute, che ha tutte le buone intenzioni di parità e inclusione, per trasformarlo, sfruttandone il “sentiment”, in qualcosa di altro che fa brillare e guadagnare solo chi lo promuove e chi ne parla, spesso anche travisandone i contenuti.Così è successo alla Mindful Eating in quel famoso libro, ed è uno dei motivi per cui non ho avuto un impatto positivo iniziale con questo approccio, ma con il tempo ho provato ad andare alla radice: il buddismo, la meditazione, un approccio orientale collettivista e naturalista, la Mindfulness, etc… ed ho capito che c’è molto di più da scoprire e per capire il valore di un approccio bisognava conoscere i valori alla base. Quando, invece, ho incontrato il libro di Tribole e Resch sull’Intuitive Eating l’impatto è stato diverso. Non era un libro diffuso (ad oggi non c’è alcuna traduzione in italiano), e seppure gli americani siano molto bravi ad autoproclamarsi salvatori del mondo, il titolo delle prime edizioni : A revolutionary program that works (un programma rivoluzionario che funziona), suonava davvero molto “marketing”, era di fatto un approccio rivoluzionario, basato su presupposti scientifici e politici inclusivi e radicali.Nella nuova edizione, quel primo titolo ancora molto centrato sul risultato e la performace, è stato cambiato in: A revolutionary anti-diet approach (un approccio anti-dieta rivoluzionario). Il pinkwashing dell’Intuitive EatingPiù si diffonde, più questo specifico approccio si espone al rischio di subire distorsioni, e proprio nell’ultimo periodo sono incappata in alcuni blog, post e articoli che purtroppo ne parlano in maniera a volte scorretta, a volte distorta e ambivalente, segno che non si è ben compreso il senso profondo di questo approccio; da qui l’ispirazione per scriverne un articolo che spero possa aiutare a sviluppare un occhio critico per proteggersi dalla cultura della dieta travestita da “mangia ciò che ti senti, ma…”. Ricordati da dove viene Per quanto l’Intuitive Eating faccia parte del calderoni degli approcci non focalizzati sul peso, viene delineato dalle sue fondatrici, le dietiste Evelyne Tribole e Elyse Resch, nei libri e negli studi di riferimento, in maniera abbastanza precisa: non si può inventare, ma se si desidera attingervi solo un po’ mantenendosi in una cornice prescrittiva, trovo onesto che ciò sia chiaramente specificato, altrimenti risulta chiaro che manchi una comprensione dei valori alla radice che riassumo in una frase: lotta alla grassofobia e alla cultura della dieta come dinamiche di oppressione sistemiche e ad ogni altra forma di oppressione che crei disequilibri di potere, nel rispetto di tutte le soggettività, dei bisogni e delle risorse del singolo, per un benessere personalizzato e una giustizia sociale collettiva. (Quante menate?) Ci tengo a questo punto non perché io mi voglia erigere a paladina dell’Intuitive Eating che non ha affatto bisogno del mio supporto, ma perché le pieghe che si allontanano dalla matrice inclusiva e valoriale dell’Intuitive Eating deragliano verso la cultura della dieta e atteggiamenti grassofobici.Credo sia bene non cadere nel tranello epistemologico di rendere l’Intutive Eating l’unica proposta possibile, quella universale, perché oltre ad avere infinite limitazioni, di cui un po’ accenneremmo alla fine, rischiamo di rimanere nella visione cartesiana dicotomica del tutto o nulla che stiamo per l’appunto mettendo in discussione con gli approcci inclusivi-non prescrittivi. Quindi, cosa non è l’ Intuitive Eating? 1. Un approccio per perdere pesoPer quello esistono già tantissime diete e metodi in ogni campo (la psicologia per perdere peso brrr…), che insegnano come aggirare e ingannare i nostri bisogni, e a perseguire una scala valoriale che premia la performance, la resistenza, il controllo, la magrezza piuttosto che il benessere personalizzato.Nel breve periodo conducono quasi tutti i metodi (almeno quelli più etici), a possibili alcuni vantaggi, ma nel lungo periodo le diete falliscono per circa il 95% dei casi.Purtroppo  le diete falliscono, non sempre senza conseguenze: sono, infatti, un fattore di rischio per disordini e disturbi alimentari: peggiorano il rapporto con il cibo e la fiducia proprio nei segnali più validi che dovrebbero guidare il nostro comportamento alimentare: fame, sazietà e piacere. Come se per restaurare una barca togliessero la bussola, finché rimane vicino alla riva è salva, se di poco si allontana, è in balia del mare aperto. 2. Un metodo per mangiare “più sano”Alla fine del libro dell’Intuitive Eating c’è un capitolo che se evitassimo di leggere non cambierebbe il risultato, come nella proprietà commutativa l’addendo in questo caso è la parte chiamata “Gentle Eating”: come onorare la propria salute con scelte alimentari protettive. È un capitolo bellissimo, perché ci insegna che è possibile parlare di benessere e di alimentazione senza retaggi grassofobici, nè della cultura della dieta, ma non è il cuore delll’Intuitive Eating.Non c’è mai nell’Intuitive Eating nessun obbligo

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Attenzione alla fame nervosa: si prega di non ingrassare

Come la grassofobia ha trasformato un normale comportamento in un problema Fame e sazietà sono stimoli interni governati da una fittissima rete di interazioni tra meccanismi cellulari, ormonali, nervosi, organici etc… Questo complesso sistema ha l’importante compito di regolare il nostro introito di cibo affinché il fabbisogno Calorico e nutrizionale sia rispettato, e svolge questo lavoro con efficienza da “un pochino di tempo”.Il nostro comportamento alimentare, però, è molto più complesso e non si limita a farsi governare da meccanismi automatici interni, esiste infatti anche un sistema motivazionale in cui si intersecano aspetti individuali, famigliari, sociali, esperienze, significati, apprendimenti etc… non potrebbe un solo orientamento psicologico spiegare tutto.Ed ecco che può capitare di mangiare sulla base di uno bisogno non nutrizionale, ma stimolati da una motivazione psicologica, ne è un esempio il bisogno di tollerare meglio, gestire o allontanare un’emozione negativa, oppure amplificare, glorificare, ricordare un’emozione positiva (potrebbe essere che capiti 50-50%, ma ci rimangono più salienti i momenti in cui usiamo il cibo in associazione a un’ emozione negativa perché lo vediamo più facilmente come un problema?).Oggi, che viviamo in un ambiante che fa della magrezza un valore non solo estetico, ma anche morale, mangiare per altri motivi che non siano il puro nutrimento e scegliere quegli alimenti che vengono bannati/limitati da tutti gli esperti di nutrizione (e non) fa di quella dinamica naturale un problema. La fame nervosa è un prodotto del capitalismo Oggi, che non vogliamo ingrassare, anzi vorremmo dimagrire, riuscire a mangiare solo quanto ci serve, ma se possibile di meno ancora, ignoriamo la profonda connessione che il cibo ha con la nostra storia e la storia dell’umanità, escogitiamo strategie e diete per resistere al cibo.È possibile resistere al cibo?No, tutti gli studi scientifici dimostrano che applicare la forza di volontà al comportamento alimentare è sempre un insuccesso. Seguire delle regole, rigide od elastiche che siano, distanti dai nostri bisogni nutrizionali e dalle motivazioni psicologiche profonde, è stressante, fallimentare e ci rende ancora più attratti, a tratti ossessionati, dal cibo (come naturale meccanismo di difesa per riavvicinarci con forza a qualcosa che di vitale stiamo allontanando). Ci arrendiamo?Assolutamente si.Arrendersi non significa bruciare tutti i libri di nutrizione, ma riconoscere e renderci consapevoli anche di questi infiniti meccanismi che fanno del cibo non solo una fonte di nutrimento, ma anche un mezzo per gestire le emozioni, le relazioni, le situazioni sociali.Arrendersi al controllo, alle diete e alla restrizione, o meglio, alla paura di ingrassare, significa allenarsi a scoprire le dinamiche che guidano il nostro comportamento alimentare, per saperle affrontare nel modo più costruttivo e naturale possibile. Se per tanto tempo siamo stati vittime di un sistema di credenze che ci ha fatto vivere il peso come un obiettivo, il cibo come una medicina, gli sgarri come un momento di debolezza e la dieta come un successo personale; insomma un sistema che ci ha fatto percepire il cibo e il peso come aspetti modificabili sui quali possiamo avere un pieno controllo, ci vorrà un po’ di tempo per scardinare queste informazioni dalla nostra mente e per abbracciare un approccio meno disfunzionale e più armonico, ma è possibile.Ecco alcuni passi per iniziare a provarci. Dall’ attivista è tutto, parola alla dietista. 1 PRIMO PASSO: tutti i cibi sono uguali #dietchthediet Facciamo un esperimento: abbandoniamo davvero per un momento tutte le linee guida, proviamo ad immaginare che tutti i cibi forniscano le stesse Calorie e gli stessi valori nutrizionali, se mangiare una mela o un pacchetto di patatine fosse la stessa cosa, sperimenteremmo il senso di colpa? No Sicuramente in un primo momento il desiderio di tutti quei cibi che per tanto tempo abbiamo inserito nello scatolone del “fa ingrassare” o del “non fa bene”, ossia quelli che tendiamo a limitare o eliminare, sono i primi che sceglieremmo di mangiare nel magico mondo del “tutti i cibi sono uguali”. Non li sceglieremmo per primi perché sono i più buoni, e nè li sceglieremmo sempre per primi, ma solo perché ce ne siamo privati per un periodo. 2SECONDO PASSO: ascolta il tuo corpo #innercues Quando mangio una mela come mi sento? e quando mangio le patatine come mi sento? quale sensazione mi porta a desiderare di mangiare un frutto, un piatto di pasta o la cioccolata? L’esperienza del cibo per soddisfarci pienamente deve rispondere a tutti i nostri bisogni, e sono tanti, non si esauriscono alla golosità.Ecco perché dopo aver recuperato il piacere perduto, inevitabilmente, dovremo rispondere anche ad altri bisogni altrettanto importanti:il bisogno di energia, di sazietà, di digeribilità, di vitalità etc… Potrebbe un solo alimento soddisfare tutti questi bisogni? Ovviamente no Non mi servono regole : se sperimento, e mi ascolto, scoprirò che le linee guida possono essere un valido alleato solo se saprò fidarmi in primis dei segnali del mio corpo. 3 TERZO PASSO: riconosco i momenti in cui perdo consapevolezza #triggermoments Il cibo è vita, anche quando avremo soddisfatto tutti i nostri bisogni e saremo dei mangiatori consapevoli, in una circostanza ricca di stimoli alimentari, può capitare di non rispettare i nostri segnali interni e di mangiare fino a non sentirci molto bene, cibi che non ci fanno stare molto bene (attenzione! non sto dicendo “cibi che fanno male” o che “fanno ingrassare”, ma cibi o quantità che io ho sperimentato essere meno vantaggiosi per me). Immaginiamo quei momenti come una perdita di segnale, il mio corpo, iperstimolato è confuso e disconnesso. Non c’è nulla da fare in quella precisa situazione, ma ci sono piccole scelte organizzative che possono farmi percepire un maggiore benessere:1.Fare la lista della spesaIl supermercato è un luogo iperstimolante, se andiamo senza un’indicazione precisa di ciò che ci serve, è normale che finiremo per mettere nel carrello anche tanti alimenti che non riusciremmo a mangiare, andrebbero sprecati o ci sforzeremmo di finire o che non avremmo desiderato se non avessimo in dispensa.Se ci piacciono tanto dei biscotti non dobbiamo evitare di comprarli per non mangiarli, quella è restrizione, ma se ci lasciamo ispirare al momento senza alcuna pianificazione, il rischio di mettere nel carrello, oltre ai nostri biscotti preferiti altre 3 tipologie di dolci che in

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Copertina articolo sulle linee guida

Le linee guida sono fatte per i professionisti

Uno strumento utile per professionisti della salute in ambito nutrizionale sono le linee guida per una sana e corretta alimentazione, ossia una serie di indicazioni e buone pratiche da seguire in ambito alimentare che sulla basi di studi scientifici hanno dimostrato avere un effetto protettivo sulla salute delle persone. Sicuramente ne avrete sentito parlare perché molti professionisti della nutrizione attivi sui social network vi fanno spesso riferimento, indicando quindi regole da seguire, frequenze alimentari, insomma quanto spesso posso o dovrei mangiare alcune categorie alimentari e in quale porzione rispetto al mio fabbisogno. Questi strumenti, come dicevo, sono stati elaborati per supportare il lavoro dei professionisti della nutrizione e sono sicuramente un ottimo punto di partenza per comprendere i principi, ma usati male possono rappresentare anche un’arma a doppio taglio. Provate ad immaginare una chirurga che su Instagram fa una diretta su come usare l’ago da sutura, oppure una psicologa che spiega i precisi criteri diagnostici per identificare un disturbo.Può certamente affascinare scoprire le tecniche, le strategie e le conoscenze di un lavoro sanitario che non ci appartiene, ma non ci aiuterà a guarire, né ad auto medicarci, perché per mettere in atto le competenze in modo efficace è necessario uno spettro di conoscenze attigue e complementari per conoscere le variabili, le eccezioni, le conseguenze di un effetto non desiderato e tanti altri aspetti che non possiamo nemmeno immaginare. Perché quindi una dietista che vi racconta per filo e per segno le frequenze e le porzioni consigliate dalle linee guida dovrebbe essere percepita diversamente? Questo significa che non si dovrebbe fare divulgazione scientifica? No, ma che differenza c’è tra il “rivelare” che acqua e limone al mattino non ha alcun beneficio e spiegare che “possiamo” mangiare dolci “massimo” due volte alla settimana?In un caso stiamo sfatando miti fantascientifici solo dannosi, dall’ altro stiamo banalizzando e generalizzando una regola, banalizzazione e generalizzazione che possono avere, in poche o tante persone, effetti negativi. Attenzione: non dico tutto questo perché desidero custodire gelosamente delle informazioni che, per altro, sono open source (quindi accessibili a tutti). Lo dico perché la questione è molto più complessa di come può apparire, soprattutto nell’ ambito della comunicazione via social, che per sua natura è più veloce. Credo, insomma, che specifiche “tecniche” che impattano sulla salute psicofisica e coinvolgono altre infinite variabili debbano essere maneggiate con cura. Se una “regola”, indicazione, linea guida, consiglio, può avere anche un minimo risvolto negativo per qualcuno, non dovrebbe essere diffusa con così tanta semplicità. O, in alternativa, come in un bugiardino, andrebbero indicate tutte le possibili variabili, controindicazioni e sfumature. La divulgazione si fa complessa e poco instagrammabile? Ecco che dobbiamo mettere sul piano della bilancia il personal branding e la salute e il rispetto delle persone. Non sto dicendo che tutti i professionisti della salute che fanno questo tipo di divulgazione siano interessati solo all’autopromozione, anzi, dovete sapere che chi frequenta un corso di laurea in ambito sanitario può subire la cosiddetta sindrome di Candy Candy, ovvero la tentazione di aiutare anche chi non vuole, chi non ne ha bisogno e perfino chi con quell’aiuto potrebbe peggiorare la situazione. Il tutto, unito ad un pizzico di senso di onnipotenza, può portare alla creazione di un “supereroe” disfunzionale… e lo so perché ero così. Ma torniamo alle linee guida, perchè vanno maneggiate con cura? Perché non sono valide per tutti: ci sono bisogni diversi, in diverse fasi della vita. Non mi riferisco solo alla necessità di adeguare il fabbisogno all’ età e al dispendio energetico, ma a circostanze che influenzano il nostro comportamento alimentare e le nostre scelte molto più delle nostre conoscenze. Penso a persone che lavorano a contatto con il cibo, persone che lavorano da casa (e in questa pandemia 2020 in tanti hanno sperimentato questa situazione), persone che vivono con chi ama sperimentare nuove ricette quotidianamente, persone che vivono con disturbi o problemi psicologici, persone con gusti ben definiti o portafogli diversi, persone che vivono in campagna o in città, piccole o grandi, sopra ad una pizzeria o molto lontano da un supermercato, persone che vivono da sole e persone che vivono in 4 sotto lo stesso tetto… Se pensate che tutte queste variabili non facciano la differenza, e che tutti possano “rispettare” le linee guida, allora credete ancora che le conoscenze e la forza di volontà possano in qualche modo operare sulle nostre scelte alimentari. Non è così e consiglio lo speech di Traci Mann per approfondire. Quindi le conoscenze non cambiano il comportamento? Quando ero una giovane studentessa avevo l’obiettivo di dimostrare nella mia tesi di laurea che l’educazione alimentare avrebbe salvato il mondo. Mai avrei pensato di trovare solo studi che confutassero la mia idea. Decisi così di cambiare il titolo della mia tesi, L’educazione alimentare per prevenire i disturbi alimentari dopo ciò che avevo letto, mi pareva un titolo davvero contraddittorio, ma quando corsi dalla mia relatrice con la coda tra le gambe dovetti accettare che non era particolarmente interessata alle mie scoperte. Dovetti mantenere il titolo e aggiunsi solo che non era efficace: la commissione non era pronta a scoprire che una delle principali mansioni delle dietiste era inutile come la si stava svolgendo… e forse non lo siamo nemmeno ora… L’educazione alimentare non gioca un ruolo determinante nelle nostre scelte quotidiane perché ciò che facciamo e scegliamo è il risultato di infinite dinamiche emotive, sociali, economiche, culturali, famigliari etc.. Immaginiamo, ogni volta che prepariamo un pasto, una serie di piccole vocine che nella nostra testa discutono, come in un meeting, per portarci ad una scelta: una pasta al sugo, una nuova ricetta, una bistecca alla piastra, una scatoletta di tonno, un just-eat, o magari nulla, anche se abbiamo fame. Tra queste vocine, ce n’è anche una che rappresenta le linee guida. Ecco, è una fra tante. Non basiamo quindi le nostre scelte solo sulle nostre conoscenze, ma queste partecipano alle scelte, e il grado di partecipazione dipende da troppi fattori alcuni dei quali incontrollabili. Perché queste conoscenze possono essere svantaggiose? Perché spesso vanno a

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